“La perfezione si raggiunge non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non vi è più niente da togliere.”

Lo ha detto, anzi, scritto, Antoine de Saint Exupery, autore di quel capolavoro minimo e insieme massimo che è Il Piccolo Principe.

Mi sono imbattuto in questa frase stamattina, cercando online alcuni riferimenti per un progetto di restyling architettonico di cui mi sto occupando come direttore creativo.

Sorpresi, vero?

Lungi da me volermi appropriare della professionalità di un architetto, o perfino di un geometra, eppure mi accade di frequente che mi venga richiesta una consulenza come art director per sedi aziendali costruite o ristrutturate con un obiettivo di comunicazione e posizionamento ben preciso, in cui l’impatto sul visitatore assume un ruolo fondamentale nella sua percezione del prodotto o servizio che l’azienda propone.

Da un ristorante di alto livello che intende offrire un’esperienza di fine dining dall’elevato valore percepito, e quindi si rivolge a me per creare un ambiente raffinato e confortevole dove accogliere i suoi ospiti, a un brand che intende stupire e coinvolgere con un elemento artistico sorprendente, il mio lavoro di emotional planner mi ha insegnato a considerare l’architettura come una sorta di evento in costante divenire.

Un libro che amo molto rileggere – “Architettura e felicità” del filosofo inglese Alain de Botton– parla proprio di questo quando dice che L’equilibrio che apprezziamo nell’architettura e che consacriamo con il termine «bello» indica uno stato che a livello psicologico possiamo descrivere come di salute mentale o di felicità. Anche noi, come gli edifici, conteniamo opposti che si possono gestire con maggiore o minore successo.“

Vi è mai successo di provare fastidio in un ristorante che non ha pensato all’adeguato isolamento acustico e che vi costringe quasi a strillare per parlare con il vostro commensale?

Avete considerato gli effetti non visivi dei colori in un determinato ambiente, sia che lo amiate sia che invece al contrario vi provochi disagio e inquietudine?

La Fondazione Stavros Niarchos ad Atene, progettata da Renzo Piano.

In questo senso l‘architettura, ma anche l’interior design hanno un ruolo fondamentale, proprio per il feeling che trasmettono. Pensarli come una sorta di evento costante, come se accadesse ogni volta che qualcuno entra è la soluzione ideale per gestire un team di professionisti con una regia consapevole in grado di ottenere esattamente l’effetto desiderato.

Ecco che allora il mio ruolo diventa proprio quello di un regista, con una vision chiara dell’obbiettivo da raggiungere e la consapevolezza professionale di ciò che è necessario per ottenerlo.

Come art director di un progetto complesso come può essere il restyling di una location, infatti, il mio ruolo è quello di assicurarmi che le scelte architettoniche e strutturali necessarie per motivi tecnici non impongano spiacevoli compromessi estetici.

Non è più solamente una questione di gusto, che per definizione può essere più o meno personale, ma un fenomeno molto più complesso di consapevolezza delle sensazioni che il mio committente desidera ispirare ai visitatori, o perché no, al personale interno, se si tratta di un’esigenza per esempio relativa al team building o alla work atmosphere.

Amo molto lavorare intorno al tema della sinestesia, cioè la contaminazione dei diversi sensi.

Un’opera architettonica influenza non solamente la vista, come saremmo indotti a credere, ma anche il tatto, attraverso la scelta delle superfici, e l’acustica: vent’anni di esperienza nell’organizzazione di eventi mi hanno insegnato che il segreto per far stare bene le persone è fatto di infiniti dettagli.

Tutto questo è uno degli innumerevoli motivi per cui amo così tanto il mio lavoro. 

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